Passeggiando
per il kibbutz…
Siamo al kibbutz di Sasa (che in ebraico
significa “la parte alta della spiga”),
nell’Alta Galilea, al confine col Libano.
Da una bella terrazza panoramica
possiamo vedere la Linea blu entro la
quale nel 2000 si è ritirato l’esercito
israeliano. Ci accompagna nella nostra
passeggiata vespertina, rincorsi dalle
fresche folate del vento primaverile di
montagna (siamo a 1.000 metri), Angelica
Calò Livnè, un’ebrea romana che qui è
venuta a vivere da quando aveva 20 anni.
Oltre il piccolo moshav (un tipico
villaggio israeliano a impostazione
cooperativistica) dai tetti rossi, ci
mostra quello che circa 30 anni fa è
stato il primo confine che fu “aperto”
tra Israele e Libano: attraverso di esso
accettavano le persone ferite o quelle
che dovevano andare in ospedale.
«Io stessa – ci
racconta Angelica con grande energia –
ho partorito il primo dei miei 4 figli,
22 anni fa, in una camera insieme a due
donne libanesi (che non avevano gli
ospedali). Poi, purtroppo, quando hanno
iniziato gli Hezbollah (la milizia
sciita libanese, ndr.) abbiamo dovuto
chiudere un’altra volta il confine».
«Si dice che gli Hezbollah, dopo la
nostra uscita dal Libano, – continua la
nostra amica con una venatura di
sorridente amarezza – abbiano preparato,
da qui fino al mare Mediterraneo e
dall’altra parte fino al monte Hermon,
già tutti i missili pronti su di noi per
poterci attaccare. Noi speriamo di no…».
La situazione però adesso sembra
tranquilla, anche dopo l’assassinio del
premier libanese Hariri (lo scorso 18
febbraio) e le successive accuse alla
Siria. Però alcuni anni fa è successo
che alcuni Hezbollah hanno scavalcato il
confine ed hanno cominciato a sparare
all’impazzata su tutti quelli che
passavano, colpendo tante persone… Per
questo il confine è controllatissimo:
c’è una vigilanza continua lungo tutto
questo confine. C’è un recinto
elettronico che al semplice tocco fa
scattare l’allarme e l’immediato arrivo
delle pattuglie.
Dietro di noi abbiamo il monte Meron,
1.200 metri s.l.m., il secondo più alto
monte di Israele, dopo l’Hermon. Tra
queste verdi montagne ancora si trovano
reperti archeologici antichissimi,
risalenti all’età della pietra.
Malgrado la cronica mancanza d’acqua nel
kibbutz si riescono a coltivare dei
piccoli frutteti (ciliegie, kiwi e mele).
È talmente grave il problema dell’acqua
in Israele che si educano i bambini a
come lavarsi i denti, a chiudere il
rubinetto mentre si sciacquano i denti.
Il questo paese ci sono delle attenzioni
molto particolari, per essere un paese
in guerra da sempre; ad esempio,
passando davanti a dei fiori rossi
Angelica ci fa notare che non sono i
comuni papaveri, ma degli anemoni (dei
fiori che normalmente vengono venduti).
Eppure nessuno li coglie perché in
Israele è vietato raccogliere fiori, a
causa della mancanza d’acqua. «Qui c’è
un rispetto totale per i fiori, per gli
alberi: siamo forse l’unico popolo al
mondo che ha una festa per gli alberi (il
Tu bi-shevat, il Capodanno degli alberi)»;
se pensiamo che qui una volta era una
terra brulla, un deserto di rocce, ed è
stato trasformato in un vero e proprio
giardino con il sudore della fronte di
tanti, capiamo la grande importanza che
possono avere gli alberi e la natura per
la gente del posto.
Passiamo davanti alle beit-ieladim, le
case di bambini, che occupano la parte
centrale del kibbutz; infatti esso è
fatto a cerchi concentrici e la parte
più curata e protetta è quella dei
bambini. Una volta i bambini dormivano
tutti qui, assistiti a turno dalle mamme;
adesso le cose sono cambiate, perché non
è possibile che un bambino si svegli di
notte e non trovi la sua mamma ma ogni
volta una donna diversa. Adesso stanno
solo di giorno, fino alle 16.00; vanno a
scuola, fanno merenda, giocano… e poi
tornano a casa.
Questi monti dell’Alta Galilea, da Zfat
al monte Meron, sono anche il luogo dove
è nata la mistica ebraica, la Qabbalah;
sono posti pieni di tombe di rabbini del
I-II sec. a.C. «Non mi stupisco che sia
nata qua – ci confessa Angelica con un
pizzico di orgoglio – perché questo è un
posto molto particolare… molto “vicino a
Dio”, molto puro, a contatto con la
natura. La Galilea è un posto davvero
speciale!».
Passando poi ad un argomento decisamente
diverso, Angelica ci mostra una piccola
industria, dove i kibbutzim (gli
abitanti del kibbutz) producono vetri e
giubbotti antiproiettili. Proseguendo
nella nostra passeggiata, notiamo delle
sirene montate sui tetti delle case: «Sono
sirene di avvertimento – ci avverte la
nostra guida – utilizzate quando ci sono
stati gli attacchi di Saddam [Hussein,
ndr.] nel 1991». La nostra curiosità
cresce, ma si capisce che non ha voglia
di soffermarsi troppo sull’argomento:
ogni 3 case c’è un rifugio antiatomico,
nel quale si rifugiavano le famiglie ad
ogni lancio di Scud iracheni durante la
prima Guerra del Golfo.
Il kibbutz è composto da circa 400
persone, di cui 200 membri effettivi,
100 bambini (che diventano membri dopo
aver fatto il servizio militare) e 100
ospiti (che vengono qui per lavorare,
militari, ecc.). Tutti i membri mettono
in una cassa comune gli stipendi e
condividono quotidianamente la colazione
e il pranzo, in una grande sala
comunitaria dove, al termine del nostro
tour, siamo invitati a cena dalla
cordiale famiglia di Angelica.
Non stupisce che in questo contesto,
fatto di relazioni umane profonde e di
semplicità di vita, sia nato il progetto
educativo il Teatro dell’arcobaleno per
ragazzi israeliani e palestinesi, che
Angelica attraverso il teatro fa
lavorare insieme per costruire un
possibile futuro di pace per Israele e
per la Palestina.
(L. Buccheri) |