Perché il cielo non cada
sulla terra.
IL "PANE PER LA PACE"
Famiglia Cristiana n. 12 del 23-05-2004
Il 22 maggio verrà
consegnato ad Assisi il Premio per la
pace al femminile. Lo hanno meritato una
israeliana e una palestinese che educano
i giovani alla convivenza tra le diverse
fedi. Non solo a scuola. Anche con un
forno, o una compagnia teatrale.
Un passante vide un uccellino a terra
con le ali distese. Si fermò a
chiedergli cosa facesse e l’uccellino
rispose: «Ho sentito che Dio vuole
scagliare il cielo sul mondo. Io cerco
di proteggere il mondo». Questo apologo
minimo e grandioso serve ad Angelica e a
Samar per spiegare cosa fanno.
Angelica Calò Livné, 49 anni, è un’ebrea
nata a Roma, vive in Israele, nel
kibbutz Sasa, Alta Galilea. È sposata
con Yehuda, professore di matematica;
hanno quattro figli maschi. Insegna a
ragazzi difficili già espulsi dalle
scuole. Organizza laboratori serali dove
le donne povere imparano un mestiere. Ha
fondato nel suo kibbutz un rinomato
agriturismo, aperto a tutti. E s’è
inventata un teatro che diffonde la
tolleranza e si chiama "Arcobaleno".
Samar Sahar, 46 anni, è una palestinese
cristiana nata a Gerusalemme, vive a
Betania, non è sposata. Continua il
lavoro dei genitori, che aiutavano i
bambini profughi dopo la guerra del
1966. Oggi Samar accoglie a Betania 110
bambini e ragazzi in difficoltà, senza
distinguere tra religioni e provenienze
diverse.
Fin dal primo incontro, anni fa, le due
donne si sono riconosciute "sorelle".
Anche se vivono dalle parti opposte del
muro, lavorano per il futuro di una
terra straziata: «Non un futuro migliore.
Ci basta un futuro», dicono.
Il 22 maggio, Angelica e Samar saranno
ad Assisi, a ricevere il Premio per la
pace al femminile. L’originale
riconoscimento, quest’anno alla prima
edizione, è istituito dai produttori del
Vino della pace di Cormòns e dall’Unione
dei ristoranti del Buon Ricordo, insieme
ai frati francescani del Sacro Convento
di Assisi. Si legge nella motivazione
che «la fraternità francescana si
esprime anche nel pane e nel vino del
convivio, opera di pace connaturata alle
donne».
Conoscevo Angelica Calò Livné attraverso
il suo libro, che s’intitola Un sì, un
inizio, una speranza (pubblicato in
Italia dall’Editoriale Tempi, Milano),
ed è un romanzo di pianto e di sorriso,
di attesa delusa e sempre risorgente.
Ora la raggiungo per telefono al suo
kibbutz, mi dice subito che dalla
finestra vede il Lago di Tiberiade. Le
sembra impossibile che su quella
bellezza, resa più struggente dalla
presenza del sacro legato a tre
religioni, continui a soffiare l’alito
dell’odio.
Anche oggi ha sentito alcuni "scoppi",
come li chiama, forse dalla strada che
porta alla frontiera col Libano. Mi
parla dei suoi figli, Gal, Yotam, Kfir,
Or. Il pensiero del maggiore che sta
nell’esercito, degli altri che vanno a
scuola in autobus, «mi tormenta le notti».
Angelica mi racconta di sé e della sua
amica Samar: «Io sono una vera ebrea
israeliana, Samar è una vera araba
cristiana palestinese. La religione e
l’appartenenza familiare ci dividono, ma
il sogno ci unisce. Adesso Samar ha
aperto a Betania un panificio dove
lavorano insieme ragazzi e ragazze ebrei,
musulmani, cristiani. Io continuo con la
mia compagnia teatrale, dove recitano
ebrei, musulmani, cristiani. Anche fare
insieme il pane, o salire insieme sul
palco, serve a costruire contro chi
distrugge. C’è un’emozione che salva la
vita», dice.
Le chiedo se il sogno resti impossibile,
ed è allora che mi racconta
dell’uccellino con le ali aperte, la
loro risposta a chi le considera delle
visionarie.
Quando mi saluta con l’augurio: Kol tuv,
in ebraico: "Tutto il bene del mondo",
penso che Dio non vorrà scagliare il
cielo sulla terra, finché ci saranno
persone come Angelica e Samar.
Franca Zambonini |